Racconto – Newsletter 1

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Il grattacielo più alto del mondo

Quando arrivai a Mosca l’estate si stava scolorando e la frutta disponibile si riduceva a pochi cocomeri azerbaigiani dalle strane forme. La prima volta che entrai in una tavola calda, arrivai alla cassa col vassoio color caffellatte praticamente vuoto: una composta di susina dal colore poco invitante ed un’anguria caucasica con polpa appena rosata punteggiata da una miriade di semi minuscoli e cosparsa di zucchero cubano non raffinato. Una vera schifezza! Mi consolai pensando che tra qualche ora mi avrebbe raggiunto uno studente italiano che alloggiava nel corpo centrale dell’Università di Mosca e forse con lui avrei mangiato qualcosa di meglio.

Anch’io avrei dovuto studiare all’Ateneo “Lomonosov”, una  delle icone della Russia sovietica, appollaiato in cima alle Colline dei Passeri, più note come Colline Lenin.  Invece appena arrivato da Roma mi sbatterono in uno studentato del quartiere Ceriomushki, in una stanza a quattro, in attesa di destinazione. Non sapevo in quale università russa sarei finito. L’unica corsa certa era che avrei detto addio a Mosca.

Antonio era un napoletano non più giovanissimo, di fatto era un fuori corso, e solo grazie alle sue conoscenze non era stato rispedito in Italia. Infatti le autorità  sovietiche erano inflessibili sia con i russi che con gli stranieri: se non riuscivi a superare gli esami di ogni sessione eri costretto a fare le valigie e andartene. Lo so bene, in quanto testimone di un caso praticamente unico: una studentessa, figlia di un capo di stato straniero europeo amico dell’Urss, dovette rientrare in patria non avendo superato gli esami della sessione estiva. Tolleranza zero, anche se nel caso in questione ebbi l’impressione che l’inflessibilità venisse più dal padre che dal ministero russo.

La sistemazione degli studenti nel corpo centrale del Moskovskij Gosudarstvennyj Universitet (Mgu) era una vera e propria sciccherìa nel panorama abitativo delle grandi città della Russia europea. Soprattutto a Mosca e Leningrado la coabitazione, figlia in parte della seconda guerra mondiale, imperava ancora creando vecchi e nuovi problemi alla gente comune, in particolare alle giovani coppie. Una stanza rettangolare dove s’incastravano alle due pareti laterali un letto, una scrivania con la proverbiale abat-jour verde che potevi trovare in tutte le biblioteche e le case, uno scaffale a più piani adibito a libreria e in parte a buffet, e un armadio poco capiente. La cameretta faceva parte di un appartamentino (blok) che, oltre ad una seconda stanza, era composto da un ingresso e due minuscoli servizi: water da una parte e lavandino con doccia dall’altra. Ripeto: un sogno per ogni studente russo. Tanto più che l’edificio conteneva di tutto e di più, sia in fatto di infrastrutture propriamente scolastiche (biblioteche, mense, librerie, sale di lettura, ecc.) che di ogni tipo di servizi (edicole, negozi alimentari e di altri generi, banche, uffici postali, sale cinematografiche, ambulatori, lavanderie, ecc.).

***

In questo microcosmo Antonio viveva come una sorta di califfo. Non so se fosse realmente lui il responsabile del collettivo degli studenti italiani, comunque mi aveva accolto alla Stazione Bieloruskaja, ed era stato lui a promettermi di visitare il grattacielo dell’Mgu. Ed ora stavo nella sua stanza, anzi potremmo dire nel suo quartier generale, perchè in quel momento nessun altro occupava la seconda kòmnata.

Sorridendo enigmaticamente, mi disse che le lezioni non erano ancora cominciate e non sapeva chi fosse ancora il suo coinquilino, ma mi dette l’impressione di uno che sapesse il fatto suo e che l’altra stanza fosse a sua insindacabile e permanente disposizione. Poi sciorinò senza fermarsi un attimo una serie impressionanti di dati e numeri sull’Università: l’ordine di costruire 8 grattacieli a Mosca venne da Stalin il 1 gennaio 1947; il cantiere della futura Università durò ben 5 anni e le lezioni ebbero inizio il 1 settembre 1953; l’edificio aveva 37 piani, era alto 182 metri e con la guglia arrivava a 240, cioè era l’edificio più alto d’Europa. Nella costruzione del grattacielo, per ordine del “sovrintendente dell’opera” Lavrentij Beria, 4 colonne monolitiche di diaspro della Cattedrale di Cristo Salvatore rimaste miracolosamente intatte nel dicembre del 1931 dopo il suo abbattimento con cariche di dinamite e conservate nei depositi sotterranei della Lubjanka furono utilizzate per rendere solenne la Grande Sala del Rettorato dell’Mgu, così come vennero impiegati anche elementi architettonici del Palazzo dei Soviet che doveva sorgere al posto della cattedrale e che non fu mai ultimato. Enumerò tutti i servizi interni dell’edificio e concluse così: di fatto, se uno volesse, potrebbe vivere qui dentro dal primo all’ultimo giorno dell’anno accademico.

“Antò, riprendi fiato, parlami d’altro, dimmi come ti trovi, dammi qualche consiglio. In fondo sono appena arrivato, e questi dati e numeri posso leggerli su qualsiasi catalogo dell’Università, – dissi per spostare il discorso su cose che mi premeva conoscere.

“Ma di quale catalogo parli? Alcune di queste informazioni non le leggerai da nessuna parte. Dal 1956 le fonti ufficiali hanno cancellato ogni riferimento a Stalin, per non parlare di Beria. Te ne accorgerai presto” – replicò con un sorriso amaro.

“ Scusami, ma non siamo in pieno disgelo? – ribattei con parecchia grinta.

“ E allora? Ascoltami un momento: se vuoi arrivare fino in fondo e laurearti in questo paese, devi prendere con le pinze tutto quello che leggi o che ti dicono. Di un fatto o di una persona devi conoscere varie versioni, devi imparare a fare la tara sui giudizi, mai sbilanciarti perchè spesso non sai come il tuo interlocutore la pensa. Ad esempio se a conclusione di un festino, una “vecerìnka”, fai l’amore con una ragazza e dopo qualche giorno questa ti viene a dire che è incinta…”

“ Ma mi prendi in giro? – lo interruppi bruscamente. “Dopo alcuni giorni come si fa a dire una cosa del genere? E poi che c’entra con il nostro discorso?”.

“ C’entra, centra. Senti a me, quello che per noi è assurdo, qui lo fanno passare per miracolo…laico, ovviamente. Quindi non ti mettere a discutere, prendi il portafoglio, estrai una banconota da cinque rubli, gliela dai e la ragazza si toglierà di torno.

“Si fanno pagare come le prostitute?

“No, qui non esistono ancora quelle che noi chiamiamo puttane. Se le piaci, una donna non ha alcuna inibizione a venire a letto con te. I cinque rubli sono un deterrente: è come dire “Mio o non mio, prendi questi soldi e vai ad abortire (ossia levati dai piedi) !”

***

Guardai Antonio come si guarda un extra-terrestre. Per iniziare un percorso che, se tutto andava bene doveva durare cinque anni, non c’era male… “Ma dove ero capitato?” – mi cominciavo a chiedere.

“E tu – dissi un po’ alterato – se le cose stanno così, come hai fatto a resistere in tutti questi anni? Non ti conviene laurearti al più presto e rientrare in Italia?

“Io qui sto benissimo, perchè ho imparato a viverci come un pesce nell’acqua. Che torno a fare a Napoli? Ma poi quale Napoli…Anche se mi laureo in chimica, tornando in Italia dove andrei a lavorare? Come minimo, in una fabbrica del nord. Brrr, che freddo!

“Ma come? A Mosca si toccano i 30 gradi sotto zero e tu hai paura del freddo di Milano”.

“Quì dentro non ho il problema del freddo. Posso rimanerci tutto l’inverno, se voglio. Non mi manca niente. Se anche scoppiasse una guerra nucleare, qui sarei al sicuro. Attraverso alcuni passaggi sotterranei dell’Università arriverei alla Metropolitana-2, costruita ai tempi di Stalin per far evacuare il governo e i massimi dirigenti dal Cremlino”.

“Ma che stai dicendo? L’hai vista coi tuoi occhi? – obiettai.

“Nessuno l’ha mai vista e non troverai da nessuna parte una conferma ufficiale, ma la cosiddetta Metro-2 esiste e come!”

“Come fai a sapere tutte queste cose, quando tra l’altro dici che non si trovano scritte da nessuna parte?”

“Devi conoscere le persone giuste, o meglio il giro delle persone giuste, e nulla qui ti sarà precluso, soprattutto le informazioni che ti fanno vivere meglio e senza problemi”.

“Sembra il linguaggio della mafia – azzardai timidamente.

“Non confondere le cose. Non si tratta di una associazione a delinquere, ma di persone che vogliono vivere in pace, che scelgono la propria cerchia di amici in base all’empatia reciproca proteggendosi a vicenda nei confronti di uomini e avvenimenti oggettivamente ostili e pericolosi”. Detto questo, estrasse da una voluminosa pila di libri un corposo volume che aprì a caso, e proseguì:” Tu sai riconoscere un ebreo dai tratti somatici?”

Confessai la mia completa ignoranza in materia. Conoscevo alcune persone che sapevo essere ebrei, ma non li consideravo una razza a parte, ma alla stregua degli altri italiani, magari originari di altre regioni. Certamente sapevo dell’Olocausto, qualche volta ero andato “ da Giggetto” al Portico d’Ottavia a mangiare i carciofi alla giudìa, avevo qualche amico che dal suo cognome o dal mestiere della famiglia capivo che era ebreo, ma tutto qui: un nome riconducibile più o meno alla denominazione di una città o di un paese e il mestiere prevalente di commerciante. Questo era tutto quello che sapevo degli ebrei, italianissimi e impossibili per me da riconoscere dai tratti somatici.

L’album di Antonio si era aperto su due pagine fitte di foto che riportavano le  fattezze degli ebrei: il naso aquilino, i capelli crespi, le labbra sporgenti, le dita adunche. Foto scattate da ogni angolo visuale. Mi vennero i brividi. Pensai al professore di storia e filosofia del Liceo, Nannarone, che ci diceva che i tratti somatici attribuiti agli ebrei dalla tradizione antisemitica erano gli stessi che l’iconografia medievale attribuiva al diavolo e che comportavano malvagità, avidità, carnalità e potenza ( finanziaria ).

“Antò, ma sei diventato antisemita in Russia, proprio qui che, come sappiamo, vive il popolo più internazionalista e fieramente antisemita?

“ Non fraintendermi. Ti sto dicendo e ti faccio vedere quello che pensano i russi o che taluni  vogliono che i russi pensino. Questa è una pubblicazione sovietica legalmente consentita, mentre Pasternak viene pubblicato in Italia, da Feltrinelli e di fatto gli si impedisce di ricevere il Nobel per la letteratura. Mi devi ringraziare perchè ti sto facendo una lezione di vita sovietica, anzi ti sto presentando l’homo sovieticus.

Quel termine lo conoscevo molto bene. L’avevo visto da qualche parte, forse su qualche pubblicazione dell’Agenzia Novosti o forse l’avevo letto su qualche giornale italiano che pubblicava una serie di  articoli sul modo di vita sovietico e ironizzava sul termine che era stato coniato durante il lungo inverno staliniano, ma che neppure Krusciov si era sognato di accantonare dal vocabolario politico-antropologico. Poi prima della partenza per Mosca avevo letto alcuni romanzi di scrittori sovietici:  “Come fu temprato l’acciaio”,  “Ciapaev”, “Il placido Don”, “La giovane guardia”, “Terre dissodate”, “Un vero uomo”, “I vivi e i morti”,“Il biglietto stellato” e i primi volumi di “Uomini, anni, vita”. Ostrovskij, Furmanov, Sciolokhov, Fadeev, Simonov e Polevoj rientravano nel genere del realismo socialista e quindi di un abbozzo di “homo sovieticus”, ma  Aksionov e Il’ja Erenburg no, erano già oltre. Eppure le figure eroiche, positive di quel genere letterario mi avevano colpito e l’accenno ironico di Antonio mi aveva dato fastidio. Poi riflettei un attimo: tutti quei libri erano nella biblioteca di mio padre che li riceveva gratuitamente dagli “Editori Riuniti” in quanto membro del comitato centrale del Pci. Forse – pensai – era stata una lettura troppo unilaterale.

***

Sul problema dell’antisemitismo vigeva in quel paese una doppia morale. Ufficialmente l’antisemitismo era condannato e vituperato e la stampa e la tv di quel tempo stigmatizzavano ogni fenomeno o, come si usava chiamare, ogni rigurgito antisemita. In realtà le cose stavano diversamente. A tutti i livelli pubblici si applicava una sorta di “manuale Cencelli”: gli ebrei erano circa l’1 % della popolazione sovietica? Ebbene a loro spettavano un numero di posti e cariche nella pubblica amministrazione, dal basso fino ai vertici dello stato, pari a quella percentuale. Se il governo sovietico era composto complessivamente tra ministri e sottosegretari da un centinaio di persone, agli ebrei spettava un posto. Il più delle volte era quello di vice primo ministro, un posto di prestigio proprio per dimostrare che in Urss non esistevano discriminazioni e tanto meno pruriti antisemiti.

A onor del vero occorre dire che la gente comune non provava né odio né rancore verso gli ebrei. A meno che il loro percorso di vita o la loro carriera non  ne incrociasse uno e da questo incrocio ne risultasse un danno per l’uno o per l’altra. Quest’ultima ipotesi riguardava soprattutto i campi, in cui gli ebrei erano particolarmente dotati. Come, ad esempio, la musica. Ho conosciuto grandi musicisti russi che si lamentavano della lobby ebraica che, a loro dire, occupava i posti chiave e non consentiva intrusioni, se non a parenti o amici di sangue. Ma a parte questi casi, la popolazione era impegnata a fare i conti con i veri problemi della vita, il lavoro, una sopravvivenza dignitosa, e non aveva tempo per sentimenti antisemiti. Anzi, se un russo conosceva qualche ebreo influente, non perdeva tempo a rivolgersi a lui per un “aiutino”.

Ciò non significa però che anche dentro l’anima di ogni russo non albergasse un antisemitismo “dormiente”. Che si risvegliava in certi momenti, pubblici o privati. Del resto i pogrom della polizia zarista a Kiev, Leopoli e Odessa erano sì un lontano ricordo, che però un secolo dopo era stato ravvivato dalla tragica ambiguità di Stalin. Il quale da una parte scriveva che  “ l’antisemitismo come forma estrema di sciovinismo razziale è l’eredità più pericolosa del cannibalismo” e dall’altra cannibalizzava lui stesso  molti ebrei come fece con molti suoi compagni di fede e artefici della rivoluzione bolscevica. Usando la  doppiezza che lo accompagnò per tutta la vita. Celebre la sua frase in politichese :“Noi lottiamo contro Trotskij, Zinovyev e Kamenev non in quanto ebrei, ma perchè oppositori”, cui seguì nel corso degli anni la loro persecuzione e il loro assassinio. E’ difficile capire se era più grave essere ebrei o suoi oppositori politici. Del resto per Josip Vissarionovich la cosa non cambiava molto.

A meno di dieci anni dalla sua morte, preceduta dal “complotto dei medici ebrei”,  mi accorgevo che quell’1 % della popolazione sovietica aveva elaborato dei modelli di comportamento, o meglio di sopravvivenza. Modelli che peraltro facevano affiorare una certa differenza tra donne e uomini. Questi ultimi tenevano molto alla loro dignità e per navigare nel mare magnum di quella realtà che era l’Urss degli anni ’60 dovevano essere all’altezza dei migliori figli del “popolo russo”. In primo luogo dovevano competere con loro in forza fisica.

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Nella casa dello studente N° 4 di via Shevchenko a Leningrado, dove alloggiavo in una stanza, vivevamo in quattro e tra gli altri c’era Gheorghij, detto Zhora, un ebreo ucraino. Alto e allampanato, con tutti i tratti distintivi degli ebrei  ( dopo Antonio, ero diventato un esperto ), Zhora aveva un compito  durissimo: competere con i russi veri e in particolare con Viktor, un altro dei miei compagni di camera. Viktor sembrava un attore (qualche anno dopo mi sembrò di rivederlo nel Kabir Bedi di Sandokan ), un corpo perfetto e una forza spaventosa. Era nato nel Tagikistan da padre russo, militare di stanza in quella repubblica montuosa sovietica, e madre bulgara. Suppongo che fosse originaria della minoranza bulgara che da un secolo circa si era trasferita lungo il Volga, ma lui ci teneva a questa ascendenza “estera”. Come avveniva allora (ma anche oggi è così ), chi proveniva dalle regioni centroasiatiche dell’Urss privilegiava nello sport la lotta e il judo. Credo che fosse  cintura nera, ma non se ne vantava mai. Tra Zhora e Vitja c’era una sorta di gara. Nei pomeriggi invernali, dopo le lezioni all’università, rientravano in stanza, infilavano i pantaloni della tuta, si mettevano a torso nudo e cominciavano a maneggiare i pesi. I manubri andavano da 5 a 15 chili e vinceva tra loro chi si stancava per ultimo. Io dovevo fare l’arbitro: contare da 1 a 100 per ogni manubrio, stando attento che l’estensione in alto delle braccia fosse completa. Le prime cento alzate  con i due manubri sembravano un aperitivo: si sorridevano a vicenda, a turno facevano finta di non riuscire a sollevare il braccio sinistro e mi dicevano di controllare perché la competizione filasse liscia. Alle seconde cento alzate, da 20 chili complessivi,  i sorrisi si tramutavano in sguardi seriosi e attenti. Avevano ancora l’assoluta padronanza degli attrezzi, ma la concentrazione stava visibilmente crescendo. Quando si passava agli ultimi cento esercizi con i due manubri da 15 chili ciascuno, la fatica cominciava a dipingersi sui volti e sui corpi statuari. Gheorghij, di carnagione chiara, diventava più pallido del solito, mentre Viktor, di carnagione più scura, olivastra, mostrava  un volto più rubicondo e un torace che cominciava a stillare le prime gocce di sudore. A quel punto il mio ruolo diventava fondamentale: dovevo controllare l’estensione completa delle braccia verso l’alto, se qualcuno – soprattutto dopo le 50 alzate – non ci riusciva, ero costretto a sospendere temporaneamente il match e a farglielo ripetere, mente l’altro si riposava. Normalmente la gara finiva in parità. A quel punto li lasciavo e me ne andavo nella sala di lettura. Dopo un po’ di tempo venni a sapere che tra di loro c’era un tacito accordo per ripetere ciascuno il movimento non più di tre volte nelle ultime 50 alzate.

Nessuno voleva perdere davanti all’amico straniero. Un giorno però venni a sapere che, dopo il “pareggio”, continuavano fino ad esaurimento…delle forze. Me lo disse Viktor, quando mi chiese un prestito di 20 rubli fino alla fine del mese. Al mio “come mai?” mi rispose che proprio quel mese aveva perso un po’ più di gare del solito con Zhora, mi svelò che in ogni gara c’erano in palio 5 rubli. Una fortuna, se si pensa che la borsa di studio dello studente sovietico era di 45 rubli al mese.

***

 Se i ragazzi ebrei non potevano permettersi di essere meno forti dei loro coetanei russi, le ragazze avevano qualche difficoltà in più a misurarsi con le russe. A parte quelle provenienti da famiglie agiate e ben posizionate sul versante della professione, che  nell’ambito della comunità ebraica trovavano lavoro e marito. Tutte, o quasi tutte le altre sentivano come un peso la propria nazionalità ebraica, e non vedevano l’ora di disfarsene. Il sistema più semplice era quello di sposare un russo e, all’atto del matrimonio, assumere il cognome del marito, cosa che la costituzione e il codice di famiglia consentivano e consentono ancora. Spesso nemmeno questo bastava perché, soprattutto a quel tempo, la prassi ufficiale voleva che gli adulti venissero apostrofati con nome e patronimico, e spesso il patronimico esplicitava la provenienza ebraica: Il’inichna, Avramovma, Evsejevna, Jakovna, Davidovna, eccetera. Per cui ciascuna si ingegnava a farsi chiamare con un nome preso in prestito da coetanee straniere. E’ così che si potevano incontrare tante Nathalie, Nelly e Mary. Se avevi l’ardire di chiedere a che nome corrispondesse Mary e di conoscere il patronimico, la risposta era: “Mary e basta!”

Naturalmente, il matrimonio con un russo allo scopo di assumere il cognome del marito, che poi veniva mantenuto anche in caso di divorzio, comportava una serie di scomode conseguenze. Innanzi tutto proprio l’ineluttabile divorzio. Sarebbe interessante sapere quale incidenza sul numero complessivo di divorzi abbiano avuto queste unioni miste tra donne ebree e russi. Si tratta di una casistica forse complicata che andrebbe ad aggiungersi agli altri casi di matrimoni precoci tra cittadini della medesima nazionalità spinti da altre ragioni sociali come, ad esempio, quelli tra studenti provenienti da altre città e repubbliche e gente del posto. In questo caso il matrimonio riguardava gli studenti maschi che, oltre alla moglie, trovavano una famiglia e un focolare domestico nella città in cui studiavano. E il matrimonio durava giusto il periodo dell’università. Se erano matrimoni  intelligenti si rinunciava ai figli, altrimenti tutto ciò comportava nuovi seri problemi sociali: nel migliore dei casi donne giovanissime con i figli a carico ed ex-mariti lontani migliaia di chilometri. Nei casi peggiori moglie e marito finivano per rovinarsi la vita con droghe ed altro, e i figli andavano a ingrossare l’esercito dei “bezprizorniki”, i bambini abbandonati  nelle strade di città e villaggi.

Con il tempo alcuni di questi fenomeni sono gradualmente scomparsi o si sono attenuati. In primo luogo, perché, grazie alla forte emigrazione nel periodo 1985-2002 verso Israele e il resto del mondo, la stessa popolazione ebraica si è più che dimezzata in Russia. Se poi ci riferiamo ai matrimoni precoci le cose sono cambiate, perché sono drasticamente diminuiti gli studenti che vanno a studiare in un’altra città russa, e quando ciò accade, riguarda per lo più rampolli di famiglie benestanti. Anzi, c’è un nuovo fenomeno sociale: lo studio all’estero di moltissimi giovani. E questo riguarda non solo i figli degli oligarchi o dei “nuovi russi”, ma una fascia di popolazione abbastanza ampia.

***

 Così cambia la Russia e con essa i suoi costumi, che però cambiano con maggiore rapidità rispetto al ritmo di cambiamento del paese stesso. Il sentimento antisemita è uno di questi aspetti del cambiamento, anche se non è stato sradicato per sempre dalla terra russa. Ma forse alla Russia si chiede quello che nessuno dei paesi democratici più avanzati oggi  può ancora garantire del tutto: il pieno rispetto dei diritti degli ebrei non tanto da parte delle istituzione, che con qualche sotterfugio lo garantiscono, ma da quello dei semplici cittadini. Nei cuori dei quali  non è stato estirpato del tutto il seme antisemita.

Allora la cosa mi sembrò veramente enorme, perchè entrava in piena collisione con quello che avevo letto prima di recarmi in quel paese sulla formazione di un uomo nuovo, non certo un superuomo, ma certamente una persona che si immaginava di grande moralità e dignità – l’homo sovieticus.

Mi bastarono poche ore trascorse in una stanza di quello che allora era il grattacielo più alto d’Europa per accorgermi che non stavo andando all’università, come era mia intenzione, a studiare le lingue e le letterature di quell’immenso territorio euroasiatico che partiva dalla cortina di ferro e finiva sulle rive del Pacifico. No, stavo facendo i primi passi sulla strada che mi avrebbe portato alla scoperta di un popolo che da 45 anni aveva imboccato una via diversa da tutti gli altri.  Non mi ponevo l’obiettivo di scoprire se i russi avessero un’anima speciale o fossero i “nuovi leviatani” che non volevano sentir parlare né di anima russa né di anima in generale. Volevo semplicemente conoscere bene quel paese e i suoi abitanti per arrivare ad una maggiore comprensione dell’intero genere umano.  La visita al settimo grattacielo staliniano di Mosca e i racconti del mio amico napoletano mi dettero la sensazione che la via che portava alla conoscenza di quel paese era lunga e tortuosa, ma – cosa fondamentale – non mi spaventava. Insomma ero pronto a immergermi in quella nuova realtà.

 

Carlo Fredduzzi,  Direttore dell’Istituto di Cultura e Lingua Russa

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